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mercoledì 13 giugno 2012

Il dopo-terremoto: demolire o ricostruire?

(da una intervista a Salvatore Settis della Gazzetta di Mantova)

Il dopo-terremoto: demolire o ricostruire?
La cultura si divide. Qual è la vostra opinione?
Demolire ciò che è stato profondamente ferito dal sisma oppure ricostruire? Il dibattito è particolamente acceso e investe anche esponenti di primo piano della cultura. Il tutto è nato dalla “provocazione” dell’assessore provinciale alla protezione civile Alberto Grandi

MANTOVA. La “provocazione” è arrivata dall’assessore alla protezione civile della Provincia di Mantova: «Meglio abbattere le chiese, per far rinascere i centri storici». Alberto Grandi, docente all’università di Parma di Storia dell’economia ha lanciato un sasso nello stagno: «Si rischia di pensare solo alla ricostruzione degli edifici religiosi, che oggi con il pericolo di crollo tengono in scacco i centri storici dei paese. Invece bisognerebbe avere il coraggio di tirarle giù e magari fare concorsi di idee per capire come riorganizzare la comunità». Il senso della provocazione è proporre un “ripartire da zero”: non salvare il salvabile, ma costruire un nuovo modo di essere comunità, una nuova urbanistica che potrebbe voler dire spazi sociali, piazze, verde urbano.

A stretto giro ha replicato Salvatore Settis, archeologo ed ex presidente del Comitato scientifico del Te con una bordata: «Penso che Attila non poteva dichiarare di meglio»  attacca.«Se si abbandonano i centri storici, come è stato fatto all’Aquila, si lascia il tessuto urbano nelle mani degli speculatori».


Ma a sostegno di Grandi giunge da Vienna l’opinione di un architetto di grido, Boris Podrecca: «Si può rimpiazzare ciò che è stato lesionato dal terremoto – ha spiegato – a condizione di sostituirlo con qualcosa che acquisti maggior valore. Si può distruggere in modo intelligente e poi ricostruire». Il dibattito continua.

L’INTERVISTA CON SALVATORE SETTIS. «I centri storici distrutti dal terremoto vanno ricostruiti e i monumenti salvaguardati». Salvatore Settis, archeologo di fama mondiale, ex direttore della Normale di Pisa ed ex presidente del comitato scientifico di Palazzo Te voluto dal sindaco Brioni che lo scelse anche come suo consulente in campo culturale, mette in guardia i mantovani dall’adottare, per la ricostruzione, il modello dell’Aquila. Attacca l’assessore provinciale Grandi, definito un “Attila” e chiede al Governo di trovare i soldi per il dopo sisma dalla lotta all’evasione fiscale e da una tassa sulla transazioni finanziarie.


L’assessore provinciale all’ambiente, Alberto Grandi, sostiene che è meglio abbattere le chiese e i campanili pericolanti e ricostruire un nuovo tipo di socialità nei vari paesi colpiti dal terremoto. Cosa ne pensa?
«Penso che Attila non poteva dichiarare di meglio. Il fatto di avere un assessore Attila in una provincia con gravi problemi ambientali e di tutela dei monumenti è un segno di degrado istituzionale, civile e storico del nostro paese».

Grandi, però, sostiene che la sua è soltanto una provocazione...«Credo che se anche volesse presentare la sua proposta come una provocazione culturale, sarebbe un moltiplicare all’Emilia e alla Lombardia colpite dal sisma il modello dell’Aquila: abbandonando il suo centro storico, come una Pompei del ventunesimo secolo, è successo che il capoluogo abruzzese è stato lasciato nelle mani della speculazione edilizia che ha i nomi e i cognomi di chi rideva al telefono nella notte del terremoto.
E così sono state costruite 19 new town dove la popolazione è stata letteralmente deportata e dove non c’è più vita sociale visto che mancano la chiesa, l’edicola, i negozi e i bar. Lì ci sono persone che vivono in case date in comodato dallo Stato con i mobili che non sono i loro ma che sono quelli di dotazione, inchiodati al pavimento.
Insomma, in quel modo è stato disgregato il tessuto sociale di un centro storico. Questo ha segnato una svolta: mentre nei terremoti più recenti si cercava di ricostruire tutto quello che si poteva, con l’Aquila si è deciso diversamente. Si è voluto dare la possibilità di fare affari alle imprese di costruzioni, le stesse che avevano costruito con materiali scadenti la casa dello studente, poi crollata con il suo corollario di morti. Credo che rispetto alla gravità estrema del terremoto in Emilia e in Lombardia, la cosa più grave sia quanto dichiara l’assessore Grandi, la vera crepa nella società».

Anche i Comuni mantovani terremotati corrono il rischio di diventare una nuova l’Aquila?
«Si sta parlando troppo poco dell’Aquila e il rischio è di andare a costruire nuove città in cui saranno deportate le persone. E’ questa la nuova socialità? Credo che questa proposta vada bollata come irresponsabile».

Il problema, però, è dove trovare le risorse necessarie per ricostruire i centri storici di tanti piccoli paesi semidistrutti dal sisma. Che cosa propone su questo versante?
«In un paese nel quale, nel 2011, non sono state pagate tasse per 130 miliardi di euro, le risorse ci sono. Basterebbe dichiarare guerra all’evasione fiscale e introdurre una variante della tobin tax sulle transazioni finanziarie. L’evasione fiscale purtroppo è stata protetta dai governi, e l’attuale è il primo che fa qualcosa contro.
La protezione dei monumenti è legalità e dobbiamo educare la gente alla legalità. Dicendo sì alla ricostruzione dei centri storici e no all’evasione fiscale si avrebbero le risorse anche per altri settori, come la scuola e la sanità. L’evento terribile del terremoto dovrebbe essere l’occasione per un ripensamento del tema della legalità, mettendo al primo posta la lotta all’evasione fiscale».

Tanti cittadini residenti nei centri storici dei nostri Comuni colpiti dal sisma sono stati evacuati dalle loro case non perché fossero inagibili ma per il timore che chiese e campanili lesionati potessero collassare improvvisamente. Questa gente chiede alle autorità pubbliche di demolirli al più presto per consentire un pronto ritorno a casa. Come conciliare questo diritto con quello che lei ritiene un dovere, e cioè conservare il patrimonio artistico e monumentale?
«Non posso giudicare ogni singolo caso perché non conosco la situazione mantovana. Però, c’è un altro sistema invece delle demolizioni: la prima cosa da fare, in caso di un monumento pericolante, è vedere se c’è la possibilità di puntellarlo e allontanare la popolazione per il più breve tempo possibile, cercando per essa una sistemazione anche in container, senza fare nuove città. Questa soluzione avrebbe il vantaggio di costare un quinto rispetto a nuove abitazioni e di essere provvisoria. Il ministro dello sviluppo economico Passera recentemente ha detto che vuole spendere 100 miliardi di euro per autostrade e treni ad alta velocità: perché invece di fare autostrade e Tav non mettere in sicurezza con una parte di quei soldi il nostro territorio e fare una bruttura di meno?»


I monumenti di Mantova, dove lei ha lavorato fino a metà 2010 a fianco dell’ex sindaco Brioni, hanno subìto gravi danni dal terremoto. Che idea si è fatto?
«Non ho visto di persona i danni; però, conoscendo e amando il patrimonio storico della città, spero che vi si ponga rimedio quanto prima. E spero che il vostro assessore provinciale non voglia abbattere il Ducale danneggiato. La conservazione e la tutela dei monumenti è contemplata dalla Costituzione. Ciò che è mancato a Mantova come altrove è un piano di prevenzione. Lo fece nel 1983 il direttore dell’istituto centrale per il restauro Giovanni Urbani che comportava, allora, un costo di 2.700 miliardi di vecchie lire, 5 miliardi di euro di adesso. Un piano che è stato completamente ignorato dai governi che si sono via via succeduti».

Perché, secondo lei, quel piano non è mai più stato ripreso in mano?
«Perché sappiamo solo usare la dinamite per distruggere i nostri monumenti. Servirebbe una vera trasformazione culturale».

Il Comune di Mantova ha deciso di recuperare Palazzo del Podestà, a costo di sforare il patto di stabilità e di subìre le pesanti sanzioni previste dalla Stato. È d’accordo?
«È il dettato costituzionale a mettere al primo posto la conservazione dei monumenti. Questo è un valore primario superiore a qualsiasi volere economico; anzi, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico deve orientare l’economia».

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Clicca qui e vedrai l'abbattimento del campanile pericolante della chiesa parrocchiale di BONDANELLO di Moglia
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sabato 9 giugno 2012

PATRIMONIO STORICO, TUTELA - TERREMOTO IN EMILIA

Per il patrimonio storico e artistico ferito dal sisma in Emilia centralismo, burocratizzazione, tutela mortificata.
Con una singolare se pur casuale tempestività il Consiglio dei ministri, approvando il decreto legge (n. 59 del 15 maggio) che riordina e potenzia il servizio nazionale di protezione civile, è giunto a darsi il rinnovato strumento per governare gli effetti del sisma che meno di cinque giorni dopo avrebbe colpito l’Emilia.
La più rilevante (e inquietante) innovazione del provvedimento legislativo d’urgenza: il potere di ordinanza “in deroga ad ogni disposizione vigente”, riserva fino ad ora della responsabilità politica al più alto livello – il presidente del consiglio -, è conferito al capo del dipartimento della protezione civile.
E appunto, deliberato dal governo lo stato di emergenza nei territori delle province di Bologna, Modena, Ferrara e Rovigo, il capo della protezione civile ha inaugurato quel potere con le ordinanze del 22 maggio e del 2 giugno che minutamente organizzano gli interventi di soccorso, apprestando i necessari mezzi al riguardo, e in nessun modo considerano i concorrenti e irrinunciabili poteri delle istituzioni statali della tutela del patrimonio storico e artistico.
 Se ne è invece preoccupato il segretariato generale del ministero dei beni e delle attività culturali che si è affrettato (25 maggio) a dettare con un proprio “decreto” un vero e proprio assetto organizzativo speciale di emergenza, creando appositi organi ai livelli centrale e regionale (ma è esercizio di potestà regolamentare che non spetta certo al segretariato) e a interpretare autenticamente le nuove disposizioni con una pedissequa e perentoria circolare.
E così come la “unità di crisi - coordinamento nazionale” istituita presso il segretariato generale non comprende e supera le direzioni generali dei diversi ambiti di merito, la direzione regionale, operando quale “unità di crisi – coordinamento regionale”, accentra in sè i compiti di rilevazione e intervento, perché “tutti gli istituti del MIBAC aventi sede nell’ambito territoriale dell’evento emergenziale [bene lo spiega la circolare] dovranno riferirsi esclusivamente [sottolineatura nel testo della circolare] alla direzione regionale territorialmente competente sia per le comunicazioni relative al danno subito che per i successivi interventi (rilievo e messa in sicurezza). La direzione regionale costituisce infatti l’unica struttura del MIBAC  che, in stretto collegamento con l’unità coordinamento nazionale, opera in sinergia con le strutture territoriali deputate agli interventi in emergenza (prefetture, vigili del fuoco, protezione civile, enti locali)”.
Insomma, un ufficio di coordinamento amministrativo come la direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici, privo di attribuzioni di merito istituzionalmente affidate alle differenziate soprintendenze, tenuto allo “stretto collegamento” con l’unità di crisi nazionale, è identificato come l’unica struttura operativa che esercita la tutela nelle condizioni straordinarie di difficoltà e impegno. Così mortificate e in pratica escluse le soprintendenze di merito, l’esercizio della tutela è condannato alla subordinazione alla protezione civile ed è sollevato dal compito suo proprio (che non può essere sacrificato alla affermata esigenza di “sinergia”) di mettere in discussione il fondamento in concreto delle misure di massima  precauzione perseguite (con sbrigative demolizioni), nei singoli casi di edifici tutelati e lesionati dal sisma, dalle diverse istituzioni preposte alla salvaguardia della pubblica incolumità. Che è quanto è apparso non sia avvenuto con la affrettata dichiarazione di condanna alla demolizione di più di un campanile, mentre ne è risultato accreditato tra i residenti lo schema polemico, comprensibile ma artificioso, della alternativa tra conservazione del bene e difesa della vita. 
Quello che non hanno fatto le ordinanze 0001 – 0003 del capo del dipartimento della protezione civile (che pur avrebbero potuto derogare ad ogni disposizione vigente, salvi i principi generali dell’ordinamento giuridico)  è stato dunque operato dal segretariato generale con il “decreto” che sospende l’esercizio delle competenze come affidate agli istituti territoriali di merito dal codice dei beni culturali e del paesaggio e disciplinate dal regolamento di organizzazione del ministero. Alle  soprintendenze è stato in pratica sottratto lo strumento tipico, appropriato alle condizioni di urgenza, previsto dall’art.33, ultimo comma, del “codice”, il così detto “pronto intervento” (“In caso di urgenza, il soprintendente può adottare immediatamente le misure conservative necessarie”).
Crediamo che il decreto 25 maggio del segretario generale abbia introdotto una inammissibile lacerazione nel compatto tessuto della tutela, sia cioè palesemente illegittimo e soprattutto ci preoccupano gli effetti di burocratizzazione della funzione, mortificata nel suo esercizio nel merito e indebolita nella sua efficacia.
Non può stupire che nelle province colpite dal terremoto non sia stato attivato alcun pronto intervento, come invece era (1996) con successo avvenuto nei territori della bassa reggiana dove furono immediatamente messi in sicurezza i campanili danneggiati dal sisma di allora (e non più gravemente rispetto a quelli di cui oggi è stata decretata la demolizione). Né può stupire che dalla prima manifestazione del   terremoto, dal 20 maggio, sia stata vanamente attesa la voce dei soprintendenti per i beni architettonici (ridotta al silenzio, si direbbe), mentre per le istituzioni della tutela parla, esprimendo valutazioni di merito pure sui singoli casi controversi, la direzione regionale (e se è architetto il titolare, il ruolo amministrativo non esige affatto quella qualificazione professionale). Non stupisce quindi ma allarma che fino ad oggi la tutela si sia qui in Emilia espressa con l’assenso alle demolizioni e con l’avvertimento che non sono affatto scontate ricostruzioni sollecite.
Giovanni Losavio.

FANTASMI - Elio Garzillo

FANTASMI PER UNA STRANA DISFATTA: demolizioni di monumenti nel 2012?

Con il terremoto sono riapparsi, in velocità, subdoli e dimenticati fantasmi.
Si è tornati anzitutto a far distinzione fra edilizia di maggiore o di minore valore. Un argomento culturalmente superatissimo, ma determinante per legittimare e giustificare ogni azione di pulizia etnica nel campo dell’edilizia.

Gli edifici antichi e il patrimonio diffuso, fino a pochi giorni or sono nostro volto e nostra memoria collettiva, sono improvvisamente apparsi come pietre mute quando non possibile incombente rischio. Anche perché le strutture statali di tutela, istituzionalmente demandate proprio alla salvaguardia di “quei beni”, hanno subito dimostrato -quasi agendo contro natura- una inedita disponibilità ad autorizzare o tollerare demolizioni.
Non hanno convinto “gli altri” e non hanno agito “in proprio”. Non hanno preso le attese decisioni responsabili e comunque finalizzate alla salvaguardia del patrimonio, mettendo in atto (con altrettanta urgenza) interventi di messa in sicurezza come quelli, numerosi, che quelle stesse strutture avevano attivato nella zona di Reggio Emilia a seguito del terremoto del 1996. Interventi, esplicitamente previsti allora come oggi dalla normativa dei beni culturali, che avevano reso possibili opere rapide, economiche e di definitiva messa in sicurezza (con l’impiego di fasciature, incatenature, imperniature, incollaggi: non di puntellature). A Bagnolo in Piano, Villa Sesso, Correggio e in altre località e sempre in situazioni (campanili e altro) che apparivano staticamente compromesse, certo non meno di quelle per cui oggi viene approvata la demolizione. In altre parole: la “prevenzione”, non fatta nei decenni trascorsi, non viene condotta neppure -nei numerosi casi in cui è pur possibile-  nell’emergenza.

L’opinione pubblica (cioè i cittadini, molto e dolorosamente provati dalla situazione), quasi liberati da ogni remora morale, si sono all’improvviso convinti che le demolizioni possono essere una soluzione: anzi, l’unica possibile soluzione per molti problemi del momento. Le richieste a procedere in tal senso si sono moltiplicate ed hanno assunto le più varie e stravaganti forme, tutte enfatizzate dagli organi di informazione. Gli stessi organi (carta stampata e non) anzi “celebrano” le modalità di esecuzione delle demolizioni, classificate in gruppi, dalla dinamite controllata fino allo smontaggio. Sembra di essere tornati…a proposito di fantasmi…alle (inizialmente lodate) demolizioni del 1908-09 a Messina o a quelle (aspramente criticate) del 1976 in Friuli.
Subito dopo la scossa del 20 maggio, molti Sindaci apparivano più rispettosi -nel confrontarsi con le strutture storiche antiche, la loro salvaguardia o la necessità di successive ricostruzioni- degli stessi organi di tutela (che operavano invece come e umilmente insieme agli Organi della Protezione Civile), poi anche quelle voci sono sembrate affievolirsi. Si è avviata una “spirale” nella quale gli uomini e le loro “cose” non rappresentano e non costituiscono più un unicum inscindibile.  

E’ prevalsa una visione cavillosamente burocratica del “valore” degli edifici, in cui, ad esempio, la “stratificazione” (tutti i nostri edifici hanno momenti costruttivi di diversa epoca) da elemento di forza si trasforma in negativo apprezzamento. Quindi in inedita giustificazione per l’eliminazione, avendo anche messo in comparazione “quel corpo di fabbrica” con altre esigenze, ad esempio quelle della viabilità.
Ai gravissimi danni provocati dal terremoto si aggiungono quindi quelli voluti dall’uomo e dall’opinione pubblica, che ha fatto subito proprio il passepartout dei beni culturali.
Una cosa è certa: qualora si intendesse demolire il più possibile, si sta percorrendo la strada più opportuna e si sta utilizzando il momento più propizio. Dietro, forse, c’è lo spauracchio delle “puntellature a tappeto” del centro storico dell’Aquila, quelle che continuano ad aspettare, esauste, i futuri interventi di ripristino.

Elio Garzillo                                                                                                                         08.06.2012

venerdì 8 giugno 2012

Da Bologna: pericolo abbattimento per la ciminiera del Mulino Parisio



Far saltare i monumenti, per quanto disastrati dal terremoto, usare esplosivi, scapitozzare o abbattere ciminiere storiche come quella in località Mulino Parisio, significa menomare l’identità di un luogo.
Lo fecero i nazisti per sfregio. Di recente lo hanno fatto i Talebani. Si fa ora in nome  della sicurezza. La sicurezza è prioritaria. Sempre.
I monumenti devono essere tutelati, salvaguardati, mantenuti e se del caso, puntellati e restaurati. Sempre.
C'è anche una legge regionale (o c'era) in cui si vietava la demolizione delle ciminiere.
E' uno scandalo la incredibile manomissione della secolare, seicentesca ciminiera simbolo di un’intera zona. Unico luogo notevole della tutt’altro che qualificata zona sud/sud-est di Bologna. Parte integrante (e perciò intangibile) della sua storia materiale e civile. 

A nome del consiglio direttivo di Italia Nostra di Bologna, 
 Pier Luigi Cervellati